L’appassionato libro del giornalista Ferdinando Cotugno è una chiamata all’azione, una spinta ad agire sul piano individuale e collettivo per salvare la vita umana sulla Terra. “Primavera ambientale” fa appello al desiderio e all’immaginazione per cominciare a costruire la società del futuro a zero emissioni e auspica che i giovani attivisti dei movimenti per il clima e per i diritti civili entrino nella politica e rivitalizzino la democrazia.
Desiderio, immaginazione, futuro, felicità: di questo parla il libro “Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra” (Il Margine), di Ferdinando Cotugno, giornalista freelance che per il quotidiano Domani cura la newsletter Areale, su clima ed ecologia. Perché i dati e le argomentazioni scientifiche ci sono già e poco più di sette anni ci separano dal 2030. Anni in cui bisogna agire con urgenza e cominciare a immaginare come può essere la società dopo la transizione ecologica: quindi non solo impegnarsi per fare in modo che il futuro possa ancora esistere, ma pensare anche a cosa vogliamo che esso sia. Come diceva Alexander Langer “la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”. Ma Primavera ambientale è anche un libro che dà voce a tutti coloro che da attivisti o semplici cittadini sono preoccupati per i cambiamenti climatici, ma rimangono completamente inascoltati dalla politica. E quindi Cotugno auspica che l’attivismo giovanile italiano sul clima si faccia posto nella politica istituzionale, perché i partiti “vanno presi, usati, fondati, cambiati, perché il cambiamento avviene da lì e la politica ha un enorme bisogno di essere rinnovata”.
Ferdinando, da quale esigenza nasce questo libro?
Questo libro nasce dal fatto che il carico emotivo al quale siamo tutti e tutte esposti per via della crisi climatica non riesce a trovare sbocchi, né nella politica né altrove. Non ti nascondo che è un carico emotivo anche personale. Ora forse siamo nel momento di più profondo pessimismo in Italia, dopo le elezioni e la totale assenza del clima nella campagna elettorale. Ma è proprio adesso il momento in cui bisogna capire cosa si può fare per il nostro futuro. All’ecologia in questo momento serve tanto desiderio e immaginazione politica. Infatti affrontiamo la crisi climatica sempre guardando alle deadline, 2030, 2050, 2100, e parlando di ciò che dobbiamo fare per evitare il peggio. Però ci chiediamo troppo poco come sarà la società a zero emissioni e come vorremmo che fosse. Come vivremo? Come lavoreremo? Come saranno le nostre relazioni? È una ricerca che il mondo ambientalista nella sua interezza deve cominciare a fare.
E perché non ne parliamo?
Ne parliamo ancora poco perché mancano gli strumenti. Le scienze naturali ci hanno già detto il necessario per agire. In questo momento mancano invece tentativi organici di provare a immaginarsi un futuro plausibile dopo la transizione, che dovrebbero arrivare dalle scienze sociali. E questo crea un grande vuoto nella politica.
Come mai scrivi che la transizione ecologica in Europa è molto più importante di quella in Cina?
L’Europa rappresenta solo l’8% delle emissioni globali e noi italiani l’1%. Molto spesso quindi si crede che la transizione europea non conti nulla se la paragoniamo a quella cinese. Secondo me l’Europa non ha solo la missione di decarbonizzare se stessa, ma di dimostrare al mondo che un’economia prospera, avanzata e contemporanea, non basata sulla rinuncia e sull’ascesi, è possibile. Perché se tu dimostri che c’è prosperità e felicità in una società a zero emissioni, gli altri ti seguiranno. Per l’Europa è anche un’opportunità per rimettersi al centro del mondo, in un momento in cui siamo sempre più irrilevanti. Sarebbe un grande vantaggio competitivo, oltre che un atto di generosità per le generazioni a venire.
Una riflessione interessante che fai riguarda il Big Quit, quel fenomeno che ha visto negli Stati Uniti e in Europa durante la pandemia un aumento fortissimo delle dimissioni volontarie dal lavoro. Quale nesso vedi con la crisi climatica?
Quando scrivevo il libro c’era il Big Quit, che poi è mutato nel Quiet Quitting, l’”abbandono silenzioso”, che vede i lavoratori fare lo stretto indispensabile per non perdere il proprio posto di lavoro. Sono entrambe forme di resistenza passiva rispetto a un modello che ha esaurito la possibilità di renderci felici. E ciò è strettamente legato alla crisi climatica perché il modello che ci rende così frustrati a livello individuale è lo stesso che sta distruggendo la tolleranza della Terra nei confronti degli esseri umani.
Pensare a un nuovo sistema risponde quindi ad entrambe le domande: “perché siamo così infelici?” e “quale sarà il futuro degli umani sulla Terra?”. Entrambe hanno a che fare con il modello capitalista, che non è più in grado di migliorare la vita delle persone. Si dice che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Ma ora che la fine del mondo cominciamo a vederla, siamo obbligati a cominciare a immaginare la fine del capitalismo.
Secondo me c’è una grande opportunità di trasformare la resistenza passiva del Big Quit in una resistenza attiva. Con il Big Quit le persone hanno messo in discussione il ruolo del lavoro nella loro vita attuando una soluzione individuale a un problema che però è collettivo. La grande domanda, che vale anche per l’ecologia e l’esistenza umana quindi è “riusciremo a trovare una soluzione strutturale e collettiva?”
Nel libro parli molto di una generazione, quella dei Fridays for Future, che ha trovato nell’attivismo una modalità di ritorno nel mondo e di azione politica. Dobbiamo aspettarci che l’attivismo entri nella politica?
Dobbiamo sperarlo, per il bene dell’attivismo e della politica. L’attivismo è già politica, ma un grande strumento di azione climatica sono i partiti: partiti nuovi da fondare, partiti vecchi da cambiare. I partiti vanno presi e usati perché è da lì che poi viene il cambiamento della società. Dall’altro lato, la politica ha un estremo bisogno di attivismo per essere rivitalizzata. Lo vediamo con l’aumento cronico dell’astensionismo e con la crisi del pensiero progressista. E nel movimento ecologista, ma anche in quello antirazzista, per i diritti civili e per i diritti sessuali e riproduttivi, c’è un enorme bacino di risposte ed energie per cambiare la politica. È un processo complesso ma necessario che porterà quella vitalità di cui la politica ha estremamente bisogno.
Questo è il testo integrale dell’intervista andata in onda a Radio Popolare nelle trasmissioni Il Giusto Clima e Note dell’Autore.
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