Autrice di Che cosa è la biodiversità oggi, Valeria Barbi commenta gli esiti della COP15 di Montréal e racconta le meraviglie del mondo naturale, tra viaggi, scienza e rapporto umano con le altre specie viventi.
A dispetto del titolo didascalico – Che cosa è la biodiversità oggi (Edizioni Ambiente 2022) – Valeria Barbi, politologa e naturalista, ha scritto un libro pieno di viaggi, racconti, aneddoti, citazioni letterarie ed esplorazioni. La biodiversità non si studia soltanto ma si vive entrando a contatto con i luoghi, le popolazioni e le specie che abitano insieme a noi il Pianeta. Dallo scorso luglio Barbi è anche impegnata in un reportage della durata di un anno lungo la Panamericana, la strada che congiunge l’Alaska all’Argentina: lo scopo del progetto Wane (We Are Nature Expedition) è raccogliere dati sulla biodiversità e storie di chi sta lottando per proteggere il mondo naturale. In Wane, così come nel libro Che cosa è la biodiversità, è centrale il racconto perché, come afferma Barbi “quella che stiamo vivendo è anche una crisi della comunicazione e le storie sono un potente strumento per generare empatia e diffondere consapevolezza”.
Valeria, come valuti gli esiti della COP15 sulla biodiversità, di recente conclusasi a Montréal?
L’approvazione dell’accordo di Kunming-Montréal contiene l’importante impegno di proteggere il 30% dei mari e delle terre entro il 2030. Questo è un ottimo risultato anche perché si basa su fondamenta scientifiche, ispirandosi alla teoria di Edward O. Wilson secondo la quale per salvare il Pianeta sarebbe necessario proteggerne almeno la metà. Nell’accordo vengono poi riconosciuti i diritti delle comunità indigene sulle loro terre e sembrerebbe quindi che ci siano finalmente le basi per un futuro in cui la conservazione non sia più di stampo colonialista.
Ma la mancanza di Stati Uniti e Vaticano, che non hanno mai ratificato la Convenzione sulla diversità biologica, e lo scontento di diversi Paesi africani – tra cui la Repubblica Democratica del Congo – costituiscono un problema rilevante. A questo si aggiunge il fatto che l’accordo siglato non è legalmente vincolante, lasciando ampio spazio di manovra agli Stati. Ora staremo a vedere se i governi saranno davvero in grado di coinvolgere le comunità locali in un percorso di tutela, ripristino e rigenerazione ad oggi sempre più urgente.
Di recente si è anche conclusa la COP27 sul clima a Sharm El Sheikh. Forse il maggiore successo è stata la decisione di istituire un fondo sul loss and damage, per compensare i danni e le perdite subiti a causa dei cambiamenti climatici dai paesi poveri, che sono i più colpiti dal fenomeno nonostante abbiano le minori responsabilità storiche. C’è un altro debito però che i Paesi ricchi hanno nei confronti del Sud del mondo di cui parli nel libro, quello ecologico, e che forse è ancora più grave…
Sì, siamo abituati a pensare a una situazione globale di disparità in cui il Sud del mondo ha un debito economico nei confronti dei Paesi industrializzati, che nel 2020 era di 860 miliardi di dollari. La domanda che mi pongo nel libro e che è oggetto di interessanti studi è “cosa succerebbe se cambiassimo prospettiva e mettessimo al centro del debito non i soldi ma le risorse naturali?” La situazione si ribalterebbe completamente e avremmo i Paesi del Sud in credito e i Paesi industrializzati fortemente indebitati. Nel libro racconto ad esempio il caso della Malaysia, che è stata oggetto di deforestazione sfrenata già dall’epoca coloniale per far spazio a piantagioni in grado di soddisfare la domanda di prodotti agricoli da UK e USA.
Secondo te, in che modo dovremmo cambiare mentalità per proteggere la natura?
Dovremmo davvero imparare dalle popolazioni indigene. In certi casi già lo stiamo facendo: ci sono iniziative che prendono spunto proprio dalle culture tradizionali per dare vita a progetti di conservazione della biodiversità o di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Purtroppo siamo legati ad un modello che si sviluppa intorno a tre centri concentrici: economia, ambiente e società. Ma l’economia, sulla quale abbiamo basato la nostra esistenza, non è altro che un’invenzione umana: le crisi attuali, tutte concatenate, ci suggeriscono che questo modello è sbagliato e va ripensato mettendo l’economia e la società all’interno di un cerchio più grande che è la natura. Nei prossimi anni sarà necessario lavorare sulla comunicazione e l’educazione, e sarà fondamentale coinvolgere le aziende e il mondo del business per far sì che comprendano e raccontino come la loro esistenza e quella dei loro prodotti dipendono proprio dalla biodiversità. Questo potrebbe apportare un reale cambiamento.
Nel libro rifletti sul fatto che la biodiversità non riceve la stessa attenzione del cambiamento climatico nonostante sia fondamentale per la risoluzione del problema e introduci il concetto di nature positive. Cosa significa?
Oggi le COP sul clima riescono, anche se faticosamente, a trovare posto nel dibattito mediatico, mentre quelle sulla biodiversità vengono ancora trattate come eventi nettamente minori. Eppure, al centro della COP15 di Montréal c’è stato proprio il concetto di nature positive, che è fondamentale per il futuro della vita umana sulla Terra. Si tratta di un modello basato sulla consapevolezza che per un periodo limitato di tempo alcune specie continueranno a scomparire e gli ecosistemi perderanno le loro funzionalità. Grazie alla conservazione di aree chiave, alla salvaguardia di ecosistemi, al ripristino di habitat e alla riduzione di consumi e produzione, si arriverà però a un punto in cui la curva si fletterà in positivo. L’obiettivo è che entro il 2050 vi sia un numero sufficiente di ecosistemi funzionanti che consentano alle attuali e future generazioni di vivere in armonia con la natura.
Questo è il testo integrale dell’intervista andata in onda a Radio Popolare nelle trasmissioni Il Giusto Clima e Note dell’Autore.
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