La ricerca del CMCC è la prima sull’argomento basata su dati reali e non su simulazioni, grazie al periodo del lockdown, in cui industria e trasporti si sono fermati.
Durante il periodo della pandemia, le emissioni di industria e trasporti sono crollate, ma l’inquinamento da polveri sottili in Lombardia è rimasto elevato. Questo ha mostrato il significativo impatto dell’agricoltura sulla qualità dell’aria in Lombardia, dovuto in particolare alla forte presenza di allevamenti (nella Regione risiedono la metà dei maiali e quasi un terzo dei bovini presenti in Italia).
“L’innovazione del nostro studio consiste nell’aver analizzato dati reali forniti dalle centraline Arpa, applicando metodi analitici che si basano esclusivamente su dati misurati sul campo, a differenza di modellizzazioni di tipo deterministico che richiedono di norma più dati e assunzioni di partenza”, spiegano Francesco Granella, Stefania Renna e Lara Aleluia Reis, ricercatori del Centro Euro Mediterraneo sul Cambiamento Climatico e autori del recente studio pubblicato sulla rivista Atmospheric Environment.
In Lombardia, in media circa un quarto delle concentrazioni di PM10 deriva dall’interazione tra il settore agricolo e quei settori responsabili delle emissioni di ossidi di azoto. Lo studio mostra ancora una volta quanto sia fuorviante dipingere l’allevamento come pratica priva di impatto ambientale (argomento che è stato oggetto della nona puntata di Climitologie, la nostra rubrica sulle bufale climatiche realizzata dalla redazione de Il Giusto Clima).
“Grazie ai dati Arpa abbiamo potuto analizzare la composizione del particolato e verificare che si fosse effettivamente formato a partire dall’ammoniaca”, continuano Granella, Renna e Reis, che hanno lavorato a questa ricerca nell’ambito del progetto INHALE, in collaborazione con l’organizzazione non profit Legambiente Lombardia e l’Università Bocconi.
Il 97% dell’ammoniaca emessa in Lombardia deriva dal settore agricolo. Da solo questo gas non è dannoso: il problema è che reagisce con gli ossidi di azoto presenti in atmosfera – tipicamente prodotti da auto e industrie – andando a comporre il particolato, molto pericoloso per la salute umana.
Quindi durante il covid, l’inquinamento da particolato non si è abbassato granché perché l’agricoltura ha continuato la sua attività inalterata.
“L’interazione tra ammoniaca e ossido di azoto, che insieme contribuiscono alla formazione in atmosfera di PM, non è lineare, quindi non è semplice prevedere il livello di inquinamento”, affermano gli autori. “Ma una fondamentale conclusione a cui siamo giunti è che non basta ridurre solo le emissioni dell’industria e dei trasporti per migliorare la qualità dell’aria: abbiamo bisogno che si agisca su entrambi i fronti riducendo sia gli ossidi di azoto che l’ammoniaca”.
Il 7% dell’ammoniaca emessa dal settore agricolo deriva dalle coltivazioni, tutto il resto viene dagli allevamenti di bestiame, molto presenti nella regione, anche rispetto all’intera Europa. Stabulazione, stoccaggio e spandimento di liquami zootecnici sono le principali cause. In parole più semplici: feci e urine animali, in particolare di bovini e suini.
“È possibile ridurre le emissioni di ammoniaca senza ridurre i capi di bestiame attraverso alcune tecniche, come ad esempio l’interramento dei liquami zootecnici al posto dello spandimento a getto oppure l’utilizzo di silos coperti per lo stoccaggio”, concludono Granella, Renna e Reis. Ci sono le soluzioni tecniche e poi ci sarebbero quelle comportamentali: ridurre direttamente il numero di capi di bestiame e quindi ridurre il nostro consumo di carne.
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