Cosa accadrebbe se la temperatura media globale della Terra si innalzasse di 1,5 °C, o addirittura di 2°C? A questa domanda risponde il rapporto speciale pubblicato recentemente dall’IPCC e che reca il titolo “Riscaldamento globale a 1,5 °C“.
Ma cosa, più precisamente, è contenuto nel rapporto, quali rischi ci prospetta e quali strategie propone? Lo abbiamo chiesto a Massimo Tavoni, Professore Associato al dipartimento di ingegneria gestionale del Politecnico di Milano e Direttore dello EIEE (European Institute on Economics and Environment).
Innanzitutto, Professore, ci può spiegare che cos’è l’IPCC?
Il Comitato Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (Intergovernmental Panel on Climate Change) è un organo delle Nazioni Unite, composto da scienziati provenienti da tutto il mondo e nominati dai Governi o direttamente dall’IPCC stesso.
Ogni sette anni, l’IPCC produce un rapporto quadro sullo stato della conoscenza scientifica riguardo i temi legati ai cambiamenti climatici. Poi, quando necessario, come nel caso del documento citato, pubblica anche dei rapporti speciali. Per produrre questi documenti, gli scienziati partecipano a una serie di meeting, rivedono tutte le pubblicazioni che la letteratura scientifica ha prodotto negli ultimi anni sul tema e redigono un rapporto che riassume l’attuale conoscenza che abbiamo sul clima.
Perché è stato redatto questo rapporto speciale?
Tutti sappiamo che il riscaldamento globale è causato dall’aumento delle emissioni di CO2 e altri gas serra, generati non solo dagli ecosistemi ma anche e soprattutto da noi esseri umani. Si parla, in quest’ultimo caso, di origine antropica dell’aumento delle emissioni di C02.
Per mettere un freno alla concentrazione di C02 in atmosfera, nella 21a Conferenza delle parti (Conference of the Parties – COP21), tenuta a Parigi nel 2015, 196 Paesi hanno formalizzato un accordo che li impegna a mantenere l’aumento di temperatura media globale al di sotto dei 2 °C, con lo sforzo di restare sotto 1,5 °C.
Proprio a seguito dell’Accordo di Parigi, i Paesi firmatari hanno chiesto alle Nazioni Unite di produrre un documento che facesse capire cosa sarebbe accaduto al Pianeta se la sua temperatura si fosse innalzata di 1,5 o addirittura di 2° rispetto ai livelli preindustriali.
Cosa ci dice il rapporto dell’IPCC?
In estrema sintesi, il rapporto ci dice due cose:
1) quali saranno gli impatti che potranno essere evitati, limitando l’aumento della temperatura media globale a 1,5° gradi anziché 2°:
2) come bisogna fare per evitare quel mezzo grado in più.
Riguardo al primo punto, il rapporto dimostra che un mezzo grado in più può fare la differenza tra un rischio “alto” e uno “molto alto”. Ad esempio, si stima che mantenendoci sotto la soglia 1,5 C° si dimezzerebbero gli eventi siccitosi nel bacino del Mediterraneo e si potrebbero salvare ecosistemi che altrimenti sarebbero destinati a scomparire. Con un incremento di 2°, ad esempio, le barriere coralline sparirebbero quasi completamente, mentre con 1,5° gradi risulterebbero parzialmente preservate. Lo stesso dicasi per i ghiacci dell’Artico: con 2° sparirebbero completamente ogni estate, mentre con 1,5° scomparirebbero in media una volta ogni secolo. 2 °C di incremento determinerebbero impatti gravi sugli ecosistemi animali e vegetali, che hanno meno capacità di adattarsi rispetto agli esseri umani. Avremmo poi un aumento degli eventi siccitosi, dei livelli del mare, degli eventi di precipitazione estrema e un aumento dell’acidificazione degli oceani.
Altrettando gravosi sarebbero i danni economici procurati da quel mezzo grado in più.
Riguardo al secondo punto, il rapporto ci dice che bisogna fare tanto e in fretta. Il settore energetico è quello che produce più C02 ed è, quindi, quello su cui bisogna agire prioritariamente: le strategie consigliate dal rapporto prevedono l’abbandono repentino delle fonti fossili (come il carbone, il gas naturale e il petrolio) e il passaggio deciso alle fonti rinnovabili. Non meno importanza il rapporto dà all’efficienza energetica come strumento per ridurre le emissioni di C02.
Il rapporto però evidenzia anche altri settori su cui occorre agire, in particolare quello agricolo: servono processi più efficienti e meno intensivi rispetto all’uso delle risorse.
Altra questione su cui porre attenzione è quella della deforestazione: la riduzione degli alberi, soprattutto nelle foreste tropicali, fa aumentare in modo considerevole le emissioni di C02. Occorrerebbe, quindi, porvi un freno, soprattutto se consideriamo che la drastica riduzione della deforestazione è una misura che si potrebbe adottare nell’immediato, è a basso costo e porta con sé molteplici benefici, non solo di ordine ambientale.
Quanto tempo abbiamo per evitare quel mezzo grado in più?
Rispetto al livello preindustriale, la temperatura media globale è già aumentata di 1 grado. Con l’attuale trend di emissioni in atmosfera, stiamo raggiungendo gli 1,5 gradi piuttosto in fretta: è stato stimato che il riscaldamento globale causato dall’uomo stia crescendo con un tasso di 0,2 °C per decennio. Con questo ritmo, la temperatura media globale potrebbe aumentare di 1,5 °C tra il 2030 e il 2052.
Da questi dati, emerge che occorre un percorso estremamente rapido di riduzione della C02: le emissioni globali di anidride carbonica causate dall’uomo dovrebbero raggiungere lo “zero netto” intorno al 2050, cioè nei prossimi 30 anni. E per fare questo dovrebbero dimezzarsi già tra 12 anni, e cioè nel 2030. La tendenza, purtroppo, è opposta: nel 2018, rispetto al 2017, le emissioni globali, invece che diminuire, sono aumentate!
Quali sono le aree del pianeta e le specie più a rischio?
Il cambiamento climatico avrà un effetto maggiore sui Paesi più caldi: i Paesi delle fasce tropicali saranno quelli più colpiti. Questi sono anche i Paesi più poveri e sono anche i Paesi in cui la crescita demografica è più alta.
Tuttavia, a livello assoluto e in termini di euro totali, anche i Paesi ricchi, come gli Stati Uniti, la Cina, l’India avranno molto da perdere, perché hanno economie più grandi e, quindi, proporzionalmente, più valore economico da perdere in caso di cambiamenti climatici estremi.
E l’Italia?
Tutto il sud Europa è a rischio: l’Italia, la Spagna, la Penisola Iberica sono sicuramente tra i Paesi che devono temere di più dai cambiamenti climatici. Come dicevo, il bacino del mediterraneo è un bacino a rischio, soprattutto idrogeologico, sia a causa dell’aumento degli eventi di precipitazione estrema, che e a causa di una diminuzione dei flussi fluviali, che in Europa sarà molto significativa. Questo ci porterà ad avere meno acqua, più siccità ed eventi di precipitazione molto intensi, in brevi periodi.
Senza considerare le tensioni politiche e geopolitiche già in essere a causa della crescente pressione demografica, soprattutto dal Nord Africa: l’Italia, sedendo esattamente in mezzo al Mediterraneo, sicuramente sarà molto vulnerabile, forse non tanto per gli impatti diretti del cambiamento climatico, ma quanto per gli impatti indiretti che deriveranno dalle conseguenze subite dai cambiamenti climatici dai paesi limitrofi.
Cosa deve fare la politica in concreto?
La politica deve prendere delle misure per aiutare questa transizione: una delle prime cose da fare è imporre un prezzo alla C02. L’emissione di C02 oggi non è ancora vista come un’esternalità negativa. Per risolvere il problema delle emissioni, bisogna utilizzare i mercati e dare un valore negativo alle emissioni di C02, ad esempio pensando a una tassazione che invece di pesare sul lavoro tassi le emissioni. Questo per quanto riguarda le politiche fiscali. Occorrerebbero, poi, delle politiche di sussidio per le nuove tecnologie, la ricerca e l’innovazione, l’educazione e la formazione dei cittadini per renderli più consapevoli delle proprie scelte individuali.
E noi singoli cittadini cosa possiamo fare?
Piccole scelte che, se moltiplicate per sette miliardi di persone, possono avere un discreto impatto. Qualche esempio: realizzare interventi di efficienza energetica nelle proprie abitazioni fa risparmiare soldi e aiuta l’ambiente. Autroprodurre e consumare energia da fonti rinnovabili contribuisce in modo consistente a ridurre la propria impronta di carbonio. Spostarsi con mezzi sostenibili o scegliere di alimentarsi con cibi che provengono da filiere sostenibili fa risparmiare tanta C02.
Anche la partecipazione attiva nella vita sociale e politica del Paese può fare la differenza, con, per esempio, scelte di voto che diano alla politica un segnale, per “indirizzarla” a mettere l’ambiente al centro dell’attività politica e non relegarlo ai margini, come avviene oggi.
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