Crisi ecologica e giustizia. Racconti di lotte e mobilitazioni dai margini è una pubblicazione curata da due ricercatrici e un ricercatore, Sara Lorenzini, Elisabetta Reyneri e Matteo Spini, e costruita con la collaborazione di militanti ambientalisti di tanti Paesi del mondo.
La giustizia climatica è al centro di questa pubblicazione edita da Casa della Cultura (scaricabile gratuitamente qui), che scava nelle difficoltà e possibilità di una transizione ambientale giusta. La transizione alle rinnovabili non può essere un mero passaggio a tecnologie verdi e a nuove materie prime da sfruttare: per essere giusta deve proporre un’alternativa al capitalismo predatorio e colonizzatore. Partendo da questa premessa, i tre giovani ricercatori hanno voluto amplificare la voce di attivisti e movimenti del Sud globale, che nonostante la loro posizione di marginalità oppongono alle logiche del profitto delle grandi aziende estrattiviste la costruzione di reti di solidarietà, tutela del territorio e cura. È proprio dai margini infatti che provengono le battaglie, le riflessioni, le politiche e le pratiche culturali indirizzate a trasformare radicalmente il nostro modo di vivere sul Pianeta.
Per Il Giusto Clima, Marianna Usuelli ha intervistato due degli autori: Elisabetta Reyneri, avvocata specializzata in diritto ambientale, e Matteo Spini, dottorando in sociologia alla Bicocca.
Qual è l’obiettivo di questa pubblicazione e chi ha contribuito?
Elisabetta Reyneri: in questa pubblicazione abbiamo voluto raccogliere tante voci provenienti da varie parti del mondo e spaccati della società. In primo luogo, voci che provengono dal Sud globale e che mettono in discussione lo status quo per promuovere una transizione ecologica giusta. Attivisti e movimenti che vengono dall’Ecuador, dal Sahara occidentale occupato, dalla Giordania e dalla Palestina, dal Ghana… Ma ci sono anche i racconti di esperienze di protesta e di trasformazione qui da noi, come GKN in Toscana, il movimento Ultima Generazione e Giudizio Universale, la campagna che ha portato il governo italiano di fronte al tribunale civile per inattivismo climatico. Raccogliendo queste interviste abbiamo voluto dare spazio alle popolazioni più vulnerabili e ad esperienze provenienti “dai margini”, che rappresentano pratiche con un grande potenziale trasformativo.
Cosa emerge sul ruolo delle donne nelle interviste che avete condotto?
Elisabetta Reyneri: Le donne rappresentano una delle categorie più colpite dai cambiamenti climatici. Sono spesso coloro che gestiscono le risorse e la famiglia, soprattutto nei Paesi del Sud globale, e spesso sono meno educate degli uomini e più vulnerabili. Fra i tanti articoli che parlano della questione femminile, ce n’è uno in particolare che consiglio a tutti di leggere: l’intervista di Alice dal Gobbo ad Antonia De Vita, professoressa di pedagogia generale sociale dell’Università di Verona. Antonia parla della cosiddetta “lotta amata”, una lotta che non è “armata” con la “r”, ma “amata”, che sottolinea la capacità e la predisposizione delle donne a lottare tenendo sempre al centro la cura, l’amore, il valore dato all’ambiente, alla natura, alle persone e ai legami. Questa espressione fa emergere un concetto diverso di lotta e di transizione, che vediamo incarnato ad esempio nel caso delle mamme PFAS nella provincia di Vicenza. Dal 2016, queste donne si battono per la salute e la salubrità dell’ambiente perché in quella zona erano state sversate delle sostanze chimiche gravemente dannose per la salute umana.
Matteo, tu hai intervistato Ernesto Picco, giornalista argentino, per farti raccontare delle problematiche legate all’estrazione di litio in Sudamerica. Perché il litio è fondamentale per la transizione e perché la sua estrazione ha importanti impatti ambientali e sociali?
Matteo Spini: Il litio è fondamentale per la transizione energetica perché è il componente principale delle batterie a ioni di litio delle automobili elettriche e dei sistemi di accumulo di energia. Buona parte del litio viene estratto dalle acque salmastre delle saline. Il 60% del litio estratto in questo modo, che è il più economico, si concentra nel “triangolo del litio”: Bolivia, Cile, Argentina.
L’intervista a Ernesto Picco, che ha svolto molte indagini in queste zone, fa emergere la complessità dell’estrazione di massa del litio. Ad esempio, si sta iniziando a studiare l’inquinamento e gli effetti del prosciugamento di molti fiumi sulle comunità e sugli ecosistemi. Da una parte ci sono comunità locali che si oppongono totalmente alle aziende estrattrici di litio. Dall’altra parte c’è chi invece negozia l’accesso, permettendo l’estrazione in cambio di benefici in termini servizi, come scuole, strade, ospedali: tutto ciò che in quelle aree rurali e marginalizzate lo Stato non sta offrendo.
L’estrazione del litio è necessaria per la transizione ecologica ma si deve evitare di riprodurre delle dinamiche di tipo neocoloniale, che vedono il saccheggio dei territori senza il consenso delle comunità che ci vivono. E questo dovrebbe anche portarci a riflettere sugli enormi livelli di consumo e produzione del Nord globale e su quanto sia problematico il mantenimento dell’auto privata, anche passando da auto a motore termico ad auto elettriche: si dovrebbe puntare sui sistemi di trasporto pubblico più che privato, sulla mobilità dolce e su un ridimensionamento dei livelli di consumo e produzione, soprattutto nelle fasce più agiate del Nord globale.
Per concludere, un esempio dal Sud globale di pratiche trasformative di difesa del territorio e di lotta contro la marginalizzazione e le disuguaglianze?
Matteo Spini: Negli ultimi anni nel Sud globale si sono sviluppate sezioni locali di grandi movimenti globali, pensiamo ad esempio a Fridays for Future in Messico, in Uganda e nelle Filippine. Questi nuovi movimenti convivono con altri attori ambientalisti locali che già da decenni lottano contro l’estrattivismo e il saccheggio dei territori. La caratteristica di queste lotte nel Sud globale è che lì le crisi ecologiche sono molto più devastanti e che c’è un contesto di estrema repressione, un livello di violenza contro gli attivisti molto maggiore rispetto al nostro.
Un esempio che trovate nella pubblicazione è l’UDAPT, rete della società civile che in Ecuador rappresenta 40 comunità che hanno subito e subiscono tuttora i danni dell’estrattivismo della Texaco-Chevron. L’UDAPT ha portato avanti una serie di proteste e battaglie legali vincendone anche alcune, e allo stesso tempo conduce un lavoro comunitario “da formica”, andando cioè in ogni singola comunità rurale per sensibilizzare e creare una rete che possa proseguire le battaglie per la giustizia ambientale anche nel futuro.
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