Ecologia digitale è un’analisi dell’impatto del settore sull’ambiente e sulla società nonché un manifesto per un internet sostenibile e democratico
Etereo, intangibile, immateriale: il settore digitale tende ad essere concepito attraverso la metafora del mondo virtuale, che ci spinge a crederlo per definizione sostenibile. Invece è molto più fisico di quanto siamo abituati a pensare: emette circa il 4% dei gas a effetto serra a livello globale e consuma una quantità enorme di risorse naturali, tra cui acqua e minerali. Il saggio Ecologia digitale (Altreconomia 2022), scritto da 25 autori e autrici, esperti, giornalisti, ricercatori e attivisti, è un’analisi dell’impatto di questo settore sull’ambiente che mostra cosa c’è dietro le quinte del cloud: un’infrastruttura tutt’altro che virtuale che oggi comprende 8 mila centri di calcolo e 70 milioni di server, e che si stima diventerà entro un paio d’anni la quarta “nazione” per emissioni di CO2 dopo Cina, India e Stati Uniti. Al tempo stesso, le energie rinnovabili funzionano grazie al digitale, che assume un ruolo cruciale nella gestione della rete elettrica e nell’ottimizzazione dei consumi. Per questo Ecologia digitale è anche un manifesto per un internet sostenibile e democratico, che sia in grado di ridurre il proprio impatto sul Pianeta diventando parte della soluzione per una transizione ecologica, giusta e democratica.
Giuseppe Palazzo, project manager presso RSE, e Matteo Spini, dottorando in sociologia presso la Bicocca, sono due dei principali autori.
Giuseppe, ci racconti come è nato il libro?
Giuseppe Palazzo: Tutto è nato da una mail di Altreconomia inviata nell’autunno 2021 agli abbonati e simpatizzanti, in cui si chiedevano idee per nuovi libri. Mi era piaciuto moltissimo il libro Che cos’è la transizione ecologica (Altreconomia 2021), anche quello corale, così ho proposto un libro analogo incentrato però sulla transizione digitale. C’è stata convergenza su questa idea con altri abbonati di Altreconomia, così abbiamo deciso di fare questo libro. È stato un lavoro di co-creazione.
Nel corso dei decenni scorsi il digitale ha superato l’industria petrolifera in termini di accumulo di capitali e influenza culturale: come si è formato questo blocco di potere?
Matteo Spini: L’attuale sistema digitale è la conseguenza delle riforme neoliberiste che negli anni ‘90 hanno portato alla deregolamentazione e privatizzazione di internet e all’indebolimento delle normative antitrust. Riforme che invece di promuovere il libero mercato concorrenziale, come annunciavano di fare, hanno portato alla formazione di una serie di monopoli. Nei primi anni 2000 l’invenzione da parte di Google di un nuovo modello di business, il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”, ha contribuito a concentrare ulteriormente la ricchezza in poche aziende tecnologiche. Questo modello si basa sull’estrazione di massa di informazioni personali che poi vengono utilizzate per produrre pubblicità personalizzate. Quindi un modello “estrattivista” che, proprio come quello di Big Oil, è caratterizzato da bassi standard ambientali e sociali nello sfruttamento delle risorse naturali. Così il digitale è diventato lo strumento di accumulazione capitalista e di accumulazione di profitto per eccellenza.
L’infrastruttura digitale si basa sui data center e le applicazioni tecnologiche si incentreranno sempre di più sul machine learning, sulle antenne 5G e sulla blockchain. Qual è l’impatto di tutto questo?
Giuseppe Palazzo: Il digitale non è affatto virtuale: si appoggia su un’infrastruttura che va dai mouse ai server e che richiede energia, lavoro, risorse (il 4,2% dell’energia globale e il 3,9% delle emissioni globali). Le tecnologie del digitale sono destinate ad aumentare il loro impatto. Impressionante è l’esempio dell’Irlanda il cui consumo di elettricità nel 2021 era in gran parte occupato dai datacenter, che nel 2030 si stima arriveranno a consumare ben il 27% dell’elettricità del Paese.
Le tecnologie innovative poi hanno un impatto più forte: le antenne del 5G sono certamente più efficienti di quelle del 4G ma consumano il triplo. Per non parlare del mondo delle criptovalute, che già oggi con il mining consuma all’incirca quanto l’intera Svezia. Parte del problema è il legame tra il valore del Bitcoin e i consumi energetici richiesti: più vale la valuta, più richiede energia. Un esempio virtuoso viene da Ethereum, la seconda criptovaluta al mondo, che con un protocollo di blockchain diverso è riuscita a ridurre i consumi di energia del 99%.
Tra i temi più caldi del momento nel settore digitale c’è quello delle terre rare e dei minerali fondamentali per i dispositivi elettronici ma anche per le tecnologie rinnovabili. Quali problemi porta con sé l’estrazione di queste materie prime?
Matteo Spini: Le terre rare sono elementi fondamentali per la costruzione di smartphone, laptop e molto altro e la loro estrazione sta diventando un terreno di scontro geopolitico e geoeconomico perché sono in buon parte concentrate in Cina. Con la tensione crescente tra la Nato e la Cina, c’è una chiara intenzione da parte dell’Occidente di svincolarsi e rendersi maggiormente autonomo. Il caso del cobalto è poi particolarmente problematico, perché nella Repubblica Democratica del Congo, che ne è ricca, c’è diffuso un lavoro minorile annesso alla sua estrazione, con forme di schiavitù, corruzione e presenza di gruppi armati entrati nel business. Ma la priorità del contenimento dei costi dei dispositivi da parte delle aziende contribuisce a mantenere gli standard ambientali e sociali molto bassi.
Cosa si può fare per rendere il digitale un settore sostenibile?
Giuseppe Palazzo: Alcuni strumenti per ridurre l’impatto del digitale già esistono. A parte il caso di Ethereum per le blockchain, è possibile, ad esempio, utilizzare il calore generato dai datacenter per il teleriscaldamento degli edifici nelle vicinanze o tramite sistemi di accumulo per utilizzare quell’energia altrove. Per la vita di tutti i giorni è utile il decalogo sviluppato da Avantgrade.com, con consigli utili per ridurre il proprio impatto: dal non utilizzare il video durante le call, al cancellare le mail e le foto dal cloud, o utilizzare le reti fisse al posto delle reti mobili, dato che il consumo di energia e le relative emissioni di una rete wi-fi non sono legate al traffico dati, come invece avviene per i “giga” dello smartphone.
Finora le aziende del digitale si sono mosse per cercare profitto, senza dare particolare importanza agli impegni presi con l’Accordo di Parigi e l’Agenda 2030, ma è il settore pubblico che dovrebbe correggere il tiro: ad esempio, in Francia dal 2022 gli operatori di accesso a internet sono obbligati a informare i clienti sulle emissioni che generano. Nel 2009 l’Unione Europea ha emanato la direttiva Ecodesign, che introduce criteri per far sì che i datacenter, i server, e in generale le strutture di archiviazione dati, siano costruiti per essere facilmente riparati, riciclati e rigenerati. E dal 2019 l’UE sta lavorando ad una normativa più ambiziosa.
Per concludere è bene ricordare che senza il digitale non si può fare la transizione energetica: l’efficienza derivante dal digitale in svariati settori può ridurre le emissioni dell’1,3% ma, tramite l’utilizzo del digitale per integrare le rinnovabili nel settore energetico, si può arrivare a un calo annuo delle emissioni del 19%: un risultato che più che compensa le emissioni prodotte dal digitale stesso.
Intervista di Marianna Usuelli
Comments are closed.