Tra i target: raggiungimento del 30% di aree protette al 2030, riduzione di 500 miliardi di dollari annuali di sussidi dannosi per la natura, rigenerazione del 30% degli ecosistemi degradati. L’accordo ha luci e ombre ma è il più ambizioso mai preso dai Paesi Onu.
Dopo quattro anni di negoziati, alla COP15 di Montréal è stato finalmente raggiunto un accordo sulla biodiversità. La conferenza si è conclusa il 19 dicembre e ha condotto alla firma del Global Biodiversity Framework di Kunming-Montréal, adottato da 196 Paesi.
Da molti paragonato per importanza all’Accordo di Parigi sul clima del 2015 (COP21) e definito “storico” da Ursula Von Der Leyen, il Quadro Globale sulla Biodiversità (GBF) comprende quattro obiettivi e 23 target da raggiungere entro il 2030 per arrestare e invertire la perdita di biodiversità.
Tra questi, rendere aree protette il 30% delle terre e dei mari, ridurre di 500 miliardi di dollari annuali i sussidi governativi dannosi per la natura, stanziare risorse pubbliche e private per 200 miliardi di dollari l’anno, rigenerare il 30% degli ecosistemi degradati e dimezzare gli sprechi alimentari e il rischio legato ai pesticidi. L’intesa sbloccherà anche 30 miliardi di dollari annuali per i Paesi in via di sviluppo e riconosce i diritti delle comunità indigene sulle proprie terre.
Un nuovo accordo dopo 12 anni
Erano passati ben 12 anni dall’ultimo accordo in sede Onu sulla biodiversità, dove erano stati stabiliti i target di Aichi 2011-2020 durante la COP10 a Nagoya in Giappone. Le COP sulla biodiversità si svolgono infatti ogni due anni e con cadenza decennale i governi devono concordare nuovi obiettivi. A causa del covid la revisione degli obiettivi è stata ritardata di due anni e, con il fallimento dei target di Aichi – tutti ampiamente disattesi – ad oggi le aree protette sono solo il 17% delle terre e 10% dei mari. La soglia del 30% è quindi un obiettivo ambizioso che richiede il contributo di tutti i Paesi che, analogamente a quanto accade per i negoziati sul clima, dovranno redigere dei piani nazionali.
Luci ed ombre
Il Global Biodiversity Framework è il più ambizioso accordo sulla biodiversità mai preso dai Paesi Onu, ma il tema dovrà riuscire a farsi posto tra le priorità della politica perché gli impegni presi non rimangano nuovamente disattesi.
“Non è un accordo perfetto, da solo non basterà ad invertire completamente la rotta”, ha affermato Emanuele Bompan, giornalista e direttore responsabile di Materia Rinnovabile, che ha seguito giorno per giorno il negoziato a Montréal, “Ma questi accordi costituiscono una base legale e una stella polare per indirizzare l’azione a livello locale”.
WWF Italia sostiene siano troppe le azioni necessarie per rendere tale accordo trasformativo: “Se non verranno, ad esempio, adottate a livello nazionale politiche per la riduzione dell’impronta ecologica di produzione e consumo i target non saranno sufficienti a raggiungere l’obiettivo lodevole di arrestare ed invertire la perdita di biodiversità entro il 2030”, si legge nel commento sul sito.
Popolazioni indigene
Un tema spinoso è quello delle popolazioni indigene, che proteggono l’80% della biodiversità del Pianeta pur rappresentando il 5% dell’umanità. L’accordo riconosce il diritto delle popolazioni indigene e locali sull’autodeterminazione nella gestione delle loro terre.
Ma come ha affermato Valeria Barbi, politologa ed esperta di biodiversità, in un’intervista per Il Giusto Clima a Radio Popolare, “se applicato con la logica occidentale, l’obiettivo di ampliamento delle aree protette potrebbe creare ulteriori disparità e discriminazioni nei confronti delle popolazioni indigene, che potrebbero vedere le loro terre poste sotto un regime di protezione che non tiene conto del loro modo di vivere e di gestirle”. Ed è proprio quello che teme Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni, secondo cui il target di 30% di aree protette potrebbe spingere 300 milioni di persone ad abbandonare la propria casa a causa dei nuovi regimi di tutela delle terre e delle foreste.
L’accordo esito della COP15 ha quindi luci ed ombre. Di certo, l’assenza del ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Frattin e la scarsa attenzione dei media italiani non fanno ben sperare sugli impegni che potrebbe prendere il nostro governo. Ma alla COP17 del 2026 ci sarà il primo appuntamento per verificare i progressi fatti dai Paesi con i piani nazionali sulla tutela della biodiversità. L’accordo di Montréal costituisce quindi la base internazionale che dovrebbe spronare i Paesi a dedicarsi a una tema, la biodiversità, che non è mai stato una priorità ma è la base della vita umana sulla Terra.
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