COP29: a Baku un passo in avanti e due indietro

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27 Novembre 2024
La “COP della finanza” è giunta finalmente ad un accordo sui fondi da destinare ai paesi poveri, ma si è stabilito 300 miliardi al posto dei 1.300 richiesti e non si è parlato dell’elefante nella stanza: le fonti fossili.

La COP29 di Baku si è chiusa con un accordo. Per molti è già un ottimo risultato date le circostanze, tra queste la vittoria di Trump, l’abbandono della delegazione argentina, la presidenza dell’Azerbaijan e la più generale impopolarità attuale delle politiche ambientali.

Ma senza dubbio quest’anno nessuno parla di “accordo storico” (come l’anno scorso con la COP28). I risultati che si porta a casa la COP29 sono due: il Nuovo Obiettivo Quantitativo Globale 2025-2035 e la decisione sull’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi e i mercati del carbonio.

Nuovo Obiettivo Quantitativo Globale 2025-2035

I paesi sviluppati dovranno riuscire a convogliare 300 miliardi di dollari all’anno verso i paesi in via di sviluppo entro il 2035 per sostenere i loro sforzi nell’affrontare i cambiamenti climatici.

I 300 miliardi rappresentano il fulcro del Nuovo Obiettivo Quantitativo Globale 2025-2035, che nel 2015 alla COP21 di Parigi si era deciso di dover fissare entro il 2025 come nuovo obiettivo in sostituzione al precedente di 100 miliardi all’anno stabilito nel 2009.

Nel braccio di ferro, i paesi sviluppati hanno ottenuto che questo denaro possa essere recuperato non solo da finanza pubblica, ma da fonti diverse tra cui prestiti delle banche di sviluppo e finanziamenti privati “mobilitati” dalla spesa pubblica.

I fondi saranno raccolti con “i paesi sviluppati nel ruolo di leader”: c’è quindi la possibilità che anche paesi definiti nella convenzione UNFCCC come “in via di sviluppo” (ormai impropriamente) come Cina, Corea del Sud e paesi OPEC del Golfo partecipino (vedi qui chi sono i “paesi sviluppati” e “in via di sviluppo” secondo l’UNFCCC)

300 miliardi sono il triplo dell’obiettivo precedente, ma meno di un quarto rispetto ai 1.300 miliardi di dollari richiesti dal G77 – che riunisce molti paesi africani, sudamericani e asiatici – sulla base degli studi degli economisti Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern.

“Al netto dell’inflazione, questa cifra è perfino inferiore ai 100 miliardi l’anno promessi nel 2009”, ha detto Ali Mohamed, inviato del presidente del Kenya William Ruto e portavoce del gruppo africano alla Conferenza.

La cifra dei 1.300 miliardi di dollari è stata inserita nella seconda parte dell’accordo, ma soltanto come obiettivo non vincolante mobilitato da “tutti gli attori”, quindi senza chiarire responsabilità specifiche.

Insomma, un risultato deludente, che ha spinto l’alleanza degli stati insulari (Aosis), il gruppo che promuove le politiche più ambiziose, ad abbandonare il negoziato addirittura la sera prima della chiusura. L’India ha definito “irrisoria” la cifra di 300 miliardi raggiunta, e insieme alla Nigeria ha accusato gli stati ricchi di non averli neanche consultati.

“Non c’è alcuna garanzia”, ha commentato Tracy Carty, esperta di politica climatica di Greenpeace International, “che questo obiettivo finanziario non venga raggiunto attraverso prestiti o finanziamenti privati piuttosto che attraverso finanziamenti pubblici basati su sovvenzioni di cui i Paesi in via di sviluppo hanno disperatamente bisogno”.

Un accordo sull’Articolo 6

L’altro importante risultato della COP29, anche questo contestato in più parti, è aver firmato la piena operatività dell’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi, permettendo l’implementazione dei mercati internazionali del carbonio dopo anni di complesse negoziazioni.

Stiamo parlando di quei meccanismi di compensazione che rispondono al principio “chi inquina paga” e che funzionano attraverso l’acquisto e lo scambio di permessi di emissione tra paesi, aziende e individui.

Il capo negoziatore della COP29 Yalchin Rafiyev ha annunciato con orgoglio di aver sbloccato “una delle sfide più complesse della diplomazia climatica”.

Pur con numerose criticità – come la mancanza di un sistema di sanzioni e di un cronoprogramma specifico sulla sua operatività – il nuovo accordo introduce finalmente un sistema internazionale per lo scambio di crediti che prevede standard globali.

Nessun accordo sull’abbandono delle fossili

L’elemento di maggiore sconforto della COP29 è il fatto di non aver fatto nessun passo avanti, se non qualche passo indietro, nella meta dell’abbandono delle fonti fossili.

Eravamo preparati a una COP ospitata da un paese fossile, la terza di fila dopo Egitto e Emirati Arabi Uniti, e non ci aspettavamo di certo che l’Azerbaijan si facesse promotore dell’abbandono delle fonti di energia da cui ricava i due terzi delle sue entrate statali. Passino anche i 1.770 lobbysti del fossile presenti alla conferenza (l’anno scorso erano quasi 2.500). Ma qui si è andati ben oltre: la presidenza azera ha escluso alcuni paesi dalle consultazioni e ha permesso all’Arabia Saudita di modificare i testi per eliminare qualsiasi avanzamento rispetto all’uscita dai combustibili fossili.

Da sottolineare che per la terza volta di fila la COP si è svolta in un paese autoritario (oltre che fossile, avete mai sentito parlare della oil curse?) e con scarse possibilità di protestare. Gli scienziati sono stati tenuti ai margini delle trattative e passerà agli annali la scena delle attiviste e attivisti che, pur essendo regolarmente autorizzati a protestare all’interno dello spazio loro concesso, non è loro permesso di urlare e quindi mugugnano.

Verso la COP30

Le previsioni di questa COP29 a Baku, nel luogo in cui è nata e fiorita l’industria del petrolio fin dal XIX secolo, fin dall’inizio erano a tinte molto fosche. Di certo non rischiarate dal discorso di pochi minuti tenuto nei giorni iniziali dalla nostra premier Giorgia Meloni, che ha indicato la sua via per affrontare la crisi climatica consigliando delle fonti energetiche che non esistono (la fusione nucleare), non sono fonti energetiche (l’idrogeno) oppure sono responsabili della crisi climatica (il gas).

La frase più lapidaria forse l’ha pronunciata il segretario dell’UNFCCC Simon Stiell: “Nessuna nazione ha ottenuto ciò che voleva e lasciamo Baku con una montagna di lavoro ancora da fare”.

Ma guardiamo le cose da un punto di vista più luminoso, grazie all’analisi di Italian Climate Network: “Contro ogni pronostico, la COP di Baku riesce veramente a portare a casa le due decisioni-chiave sul nuovo obiettivo di finanza per il clima e sull’Articolo 6”, si legge sul sito. Risultato affatto scontato.

“Pur nello sconforto di una decisione sulla finanza che non rende giustizia ai bisogni dei Paesi più fragili ed esposti ai cambiamenti climatici, l’Accordo di Parigi è ora davvero completo e, con il Nuovo Obiettivo Quantitativo Globale, vede adottato il secondo dei suoi documenti-chiave per questi anni ‘20 dopo il Global Stocktake dello scorso anno e in vista del prossimo nel 2028”.

Abbiamo un nuovo accordo, ed è un fatto essenziale visto che – è bene ricordarsi – ad oggi non esiste nessun altro strumento globale contro la crisi climatica. Si è parlato molto della lentezza pachidermica dei negoziati e della necessità di riformare il meccanismo, argomento della lettera aperta firmata da esperti ed ex leader ONU.

Ma per come è oggi la COP, ogni decisione presa in questa difficilissima arena è un piccolo miracolo.

La patata bollente ora passa alla COP30 che si terrà in Brasile a Belém e che dovrà sbrigliare il nodo più grande: quello dell’impegno di tutti a uscire dalle fonti fossili.