Le cinque maggiori compagnie dell’oil&gas hanno accumulato la cifra record di 200 miliardi di profitti nel 2022 e non intendono reinvestirla per la transizione alle rinnovabili
Mentre in Ucraina imperversa la guerra, la crisi climatica si aggrava ogni giorno che passa e i cittadini di tutto il mondo faticano a pagare le bollette, i colossi dell’oil&gas collezionano profitti stratosferici. Exxon Mobil ha stabilito il record storico di tutta l’industria fossile occidentale, con 56 miliardi di dollari nel 2022 (più del doppio dell’anno precedente). Poi, in ordine decrescente, Shell 39,9 miliardi, Chevron 36,5 miliardi, TotalEnergies 34 miliardi, British Petroleum 28 miliardi. Anche l’italiana Eni ha raddoppiato i suoi profitti nel 2022, raggiungendo 20,4 miliardi di euro. Non risulta che questi introiti verranno impiegati per promuovere la transizione energetica alle rinnovabili, visto che il 79% degli investimenti tecnici del cane a sei zampe riguarda solo il comparto “exploration & production”, ovvero l’esplorazione e lo sfruttamento di giacimenti fossili in tutto il mondo.
“La gran parte di questi profitti andrà in forma di dividendi e riacquisto di azioni proprie a vantaggio degli azionisti, per il 70% privati”, denunciano Recommon e Greenpeace, che definiscono la situazione “doppiamente oltraggiosa”, in quanto oltre ad incamerare utili astronomici, Eni “continua a destinare gran parte dei propri investimenti a quelle stesse fonti fossili che hanno causato e alimentano la crisi climatica”.
Anche il presidente degli USA Joe Biden, durante il suo discorso sulla Stato dell’Unione a inizio febbraio, ha definito “oltraggiosi” i super profitti dei cinque maggiori colossi del fossile, che hanno raggiunto i 200 miliardi di dollari nel 2022. E gli investimenti per la transizione energetica possono ancora aspettare: anche Exxon Mobil, Chevron, BP, Shell e TotalEnergies hanno già confermato che la maggior parte degli utili sarà destinata a riacquisti di azioni e dividendi.
Come sottolinea il Guardian, “i 200 miliardi di dollari di profitti equivalgono a circa cinque volte il budget annuale degli Stati Uniti per gli aiuti all’estero, o a circa il doppio di quanto i Paesi di tutto il mondo hanno stanziato per l’assistenza militare e umanitaria all’Ucraina l’anno scorso”.
Eppure basterebbe poco perché i colossi energetici cominciassero almeno a fare la propria parte per ridurre le emissioni. Secondo il Global Methane Tracker 2023, ci vorrebbe meno del 3% dei profitti maturati l’anno scorso per realizzare gli investimenti tecnologici e infrastrutturali necessari a ottenere una riduzione del 75% delle perdite di metano che quest’industria provoca lungo la filiera.
Di fronte alle cifre da capogiro, il tentativo incespicante dei governi di tutto il mondo di tassare gli extraprofitti delle fossili – dall’Italia, alla Gran Bretagna, alla Spagna e la Germania – si scontra con il rifiuto dei colossi energetici, che tacciano queste imposte di incostituzionalità. In Italia a seguito della tassa una tantum introdotta dal governo Draghi del marzo del 2022, ci si aspettava di raccogliere 10,5 miliardi, ma alla fine lo Stato ne ha incassati poco più di uno perché molte aziende si sono rifiutate di pagare.
Da un anno ormai la battaglia dei giganti fossili contro le tasse sui loro mega utili continua nei tribunali di tutta Europa. Di recente, la compagnia spagnola Repsol ha annunciato che aprirà un contenzioso contro il governo Sanchez per l’imposta introdotta in via temporanea per banche e aziende energetiche, chiedendo alla Corte Suprema di Madrid di annullarla perché violerebbe le leggi sulla concorrenza dell’UE. Ma è solo l’ultima di una serie, che ha visto ad esempio l’anno scorso muoversi il gigante ExxonMobil, facendo causa all’Unione Europea per la nuova tassazione imposta da Bruxelles alle aziende energetiche sul 33% degli utili (qualora superino di almeno il 20% quelli medi del periodo 2018-2021).
Aziende fossili multinazionali e plurimiliardarie fanno causa agli Stati, mentre quegli stessi Stati continuano a sussidiare i loro prodotti. Perché sì, in tutto questo, nel mondo sta proseguendo senza sosta la spesa dei governi in sussidi alle fonti fossili: l’IEA ha stimato che sono stati stanziati mille miliardi di dollari di sussidi ai combustibili fossili, il doppio rispetto al 2021.
Questi sussidi riguardano soprattutto i Paesi emergenti, ma anche gli Stati europei sono stati costretti a introdurre misure contro i rincari, sostenendo indirettamente l’acquisto di combustibili fossili. In totale, oltre ai mille miliardi di euro di sussidi, ci sono altri 500 miliardi di dollari che i governi di tutto il mondo, soprattutto le economie avanzate, hanno stanziato per calmierare i costi delle bollette, di cui 350 in UE. Tra questi provvedimenti ci sono stati le riduzioni di tasse e imposte (come l’iva ridotta sul gas o i tagli alle accise sui carburanti) e sostegni alle imprese energivore. Senza contare che sembra sempre essere valida la regola di privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite, come ha dimostrato anche la recente nazionalizzazione di EDF alla fine del 2022 in Francia, il principale operatore energetico d’oltralpe, in grosse difficoltà a causa degli interventi di manutenzione e restauro dei reattori nucleari.
Insomma, il quadro non è roseo, ma per fortuna c’è almeno un fatto accertato: le rinnovabili stanno correndo in tutto il mondo, facendo la loro parte nella lotta al cambiamento climatico. Nel 2022 la produzione europea di elettricità da rinnovabili ha superato quella da gas per la prima volta e un recente report IEA ha mostrato che le emissioni globali di CO2 legate all’energia sono aumentate di meno dell’1% nel 2022 – meno di quanto si temeva inizialmente: questo solo grazie alla crescita galoppante di solare e eolico, sommata agli interventi di efficienza energetica.
Marianna Usuelli
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