Sono passati solo pochi mesi e già molti di quei cittadini paladini dell’innovazione sociale “stile Uber” che contestavano il sistema corporativo dei taxisti si ritrovano a fare i conti con alcuni effetti collaterali.
Come sempre i primi a bersi tutto sono anche i primi a rigettarlo. Così agli articoli entusiasti in difesa di un sistema alternativo di trasporto urbano capace finalmente di scardinare il privilegio dei taxisti sono seguiti, da prima timidi e poi sempre più veementi, tentativi di screditamento.
Molti degli attacchi a queste start up, che offrono su scala globale servizi collaborativi grazie a programmi per computer o smartphone (le app), si fondano su elementi oggettivi e per questo sono giustificati. Gli effetti collaterali su cui si fondano tali critiche rappresentano degli sviluppi distorti di un modello innovativo di produzione e consumo quale la sharing economy.
Queste distorsioni non giustificano, però, quelle “fiammate” di ostilità verso i valori e i presupposti di iniziative che sulla collaborazione tra pari e il reale coinvolgimento delle comunità di utenti fondano la propria essenza. Il punto fondamentale è capire come vengono implementate, in quel passaggio delicato di trasformazione di una innovazione sociale in impresa che vuole offrire servizi di pubblica utilità.
La verità è che il servizio innovativo di Uber si è trasformato in impresa, ma non in un’impresa sociale. La portata innovativa e la generazione di valore condiviso sono state mortificate in un modello di business spinto all’accumulazione di valore per azionisti e investitori. E in modo ancor più distorto quelle che erano opportunità di distribuzione equa di valore sono diventate minacce per la comunità di pari (peer).
L’impresa che vuole dare forma ad un’attività economica di scambio di beni e servizi su basi reciproche deve avere alcune caratteristiche imprescindibili che permettano di sfruttarne tutto il potenziale in termini di impatto sociale.
Un primo elemento riguarda la distribuzione del valore creato che può essere equa solo con il coinvolgimento della comunità di consumatori e produttori nella proprietà e nella gestione di impresa. Nel caso di Uber, gli autisti partecipano attivamente al processo produttivo ma non hanno voce in capitolo sulle tariffe e sulla remunerazione del loro servizio, così come gli utenti non hanno visibilità sul prezzo e sulle scelte strategiche della società. In questo caso esiste un’impresa di intermediazione, partecipata da investitori, che impiega il lavoro “imprenditoriale” dei singoli autisti per ridurre i costi di produzione del servizio di mobilità. L’obiettivo di impresa è quello di offrire un servizio al minor prezzo per accrescere la quota di mercato e generare un maggiore profitto per gli azionisti. Non c’è alcun interesse a fornire un servizio di maggior tutela e di pubblica utilità.
Gli azionisti sono investitori istituzionali, venture capital, che finanziano la start-up perché ha un modello di business scalabile e altamente remunerativo. In questa logica non c’è niente di diverso dall’approccio di un’impresa mainstream che riduce i costi per aumentare i ricavi.
Cosa dovrebbe cambiare allora in questo tipo di impresa perché i benefici siano realmente condivisi dalla comunità e il valore generato ripartito tra gli utenti (produttori e consumatori)?
La proprietà deve essere diffusa e non concentrata nelle mani di pochi azionisti. Un sistema democratico come quello cooperativo che si fonda sul principio “una testa un voto” rappresenta una garanzia al conseguimento di obiettivi di interesse generale e non particolare.
Il crowdfunding, ma più in generale l’uso di piattaforme web per la sottoscrizione di quote, è uno strumento che consente di realizzare proprio questo obiettivo: dare la possibilità agli utenti di partecipare come azionisti per finanziare con una piccola quota la creazione e lo sviluppo di un’impresa condivisa. La missione di impresa è la tutela dei soci (consumatori e produttori), prima ancora della generazione di un utile economico, in termini di qualità del servizio, accessibilità e trasparenza. Dare il giusto prezzo alle cose, pagare un servizio senza il mark up per ripagare l’interesse degli investitori. L’impresa sociale è una piattaforma di creazione di valore condiviso che allinea gli interessi di produttori e consumatori senza l’intermediazione del capitale.
Un secondo elemento è la reciprocità dello scambio. Il puro scambio economico tra consumatore e produttore fondato su asimmetrie informative e prezzo determinato dalla parte venditrice deve evolvere in uno scambio tra pari alla ricerca di un prezzo di equilibrio che garantisca il soddisfacimento dell’utilità delle parti coinvolte.
Se prendiamo il modello di condivisione dell’energia da fonti rinnovabili di è nostra, la cooperativa a finalità mutualistica che fornisce elettricità rinnovabile ed etica ai propri soci, abbiamo un esempio di come si possa trasformare il principio della sharing energy in un’impresa sociale.
Oggi l’utente medio paga una bolletta per la luce che consuma. Non si preoccupa di come viene prodotta l’elettricità, non sa quanto e cosa paga realmente, non sa a chi andranno i margini di profitto sul suo consumo, non sa chi sia il produttore, non sa chi siano gli abitanti di quelle comunità dove sono localizzati gli impianti (La Spezia, Brindisi, Civitavecchia, Basilicata… solo per citare alcuni dei contesti in cui la combustione di fonti fossili determina ancora oggi gravi danni all’ambiente e alla salute).
Ma l’alternativa esiste. Applicando il modello di energia condivisa, con è nostra l’utente è in primo luogo socio e non più solo cliente dell’impresa che fornisce energia elettrica. Ha totale accesso alle informazioni, può sapere come viene formulato il prezzo al consumo, decidere in assemblea se distribuire ai soci eventuali margini, avere piena visibilità su impianti e produttori da cui viene acquistata l’elettricità, avere la certezza che si produce quanto è necessario al consumo senza sprechi e senza profitto. In alcuni casi potrà anche appartenere alla comunità in cui è localizzato un impianto e potrà partecipare come produttore con una quota di investimento.
Si ha un miglioramento dei costi del servizio di fornitura all’utente finale perché non sono previsti costi di intermediazione. Lo scopo mutualistico si traduce nella ricerca del miglior prezzo per i soci, siano essi produttori o consumatori, con un meccanismo di pricing che permette di pagare meno l’elettricità al crescere del numero di soci.
Si favorisce la reciprocità nel rapporto tra consumatori e produttori, che si incontrano per costruire relazioni fiduciarie basate sulla mutualità e sul rispetto reciproco. Chi produce vende a chi consuma, l’interesse dell’uno è soddisfatto dall’interesse dell’altro. Il risultato economico della gestione di questa attività, a cui partecipano le diverse parti con un sistema di voto democratico che non distingue i soci in base al contributo di capitale, viene ristornato ai consumatori e ai produttori in proporzione al volume degli scambi, l’acquisto o la vendita di energia.
Senza benefici reciproci, relazioni di fiducia dirette e partecipazione diffusa alla proprietà è meglio non parlare di sharing economy. Chi lo fa sottrae un pezzetto di successo a chi sui valori della condivisione ha costruito la propria impresa, industriandosi ogni giorno per superare vincoli e difficoltà e mantener fieramente fede a promesse e impegni presi nei confronti di chi sposa il nuovo modello. Di chi con le proprie scelte consapevoli contribuisce a costruire quel solido continuum tra produzione e consumo, a beneficio di tutti.
Davide Zanoni
Presidente di è nostra
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