A pochi giorni dalla conclusione della difficile e boicotattissima COP25 di Madrid, la delusione e la rabbia sono certamente i sentimenti prevalenti tra gli ecologisti, le associazioni, i ragazzi dei Fridays For Future, la società civile, le imprese illuminate e ogni ente/soggetto impegnato per un radicale cambio di paradigma, che ambisca a contenere i danni del grande sconvolgimento climatico e a trasformare questa sfida epocale in un’occasione per compiere un cambio di rotta radicale per economia e società – di Annalisa Corrado
«Sembra che la COP25 a Madrid stia andando a pezzi proprio in questo momento. La scienza è chiara, ma la scienza è ignorata. Qualunque cosa succeda non molleremo mai. Abbiamo appena cominciato» è il commento amaro ma determinatissimo di Greta Thunberg.
“Sono deluso dai risultati di #COP25. La comunità internazionale ha perso un’importante opportunità per mostrare una maggiore ambizione in materia di mitigazione, adattamento e finanza per affrontare la crisi climatica. Ma non dobbiamo arrenderci e non mi arrenderò. Sono più determinato che mai a lavorare affinché il 2020 sia l’anno in cui tutti i Paesi si impegnino a fare ciò che la scienza ci dice sia necessario per raggiungere la carbon neutrality nel 2050 e un aumento della temperatura non superiore a 1,5 gradi” risponderà poco più tardi Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite.
Nulla di fatto per il negoziato sull’articolo 6 degli accordi di Parigi, relativo alle regole che dovranno governare il nuovo sistema per lo scambio delle quote di emissioni di CO2 tra Paesi “virtuosi” e Paesi emettitori (cercando di mantenere entro soglie stabilite le emissioni complessive), se ne riparlerà a giugno a Bonn.
Deludenti e rimaste all’enunciazione di principi anche le trattative sull’importantissimo meccanismo di “Loss and Damage” (fondamentale anche per rispettare i diritti umani, il principio di giustizia climatica e per disinnescare potentissimi focolai di crisi sociali e geo-politiche), che deve essere costruito a supporto e risarcimento dei Paesi più esposti agli effetti della crisi climatica (e totalmente non responsabili della stessa).
Una nota positiva è l’accordo trovato per inserire nei meccanismi di attuazione degli accordi principi e strumenti per l’attenzione ai diritti umani in generale, con esplicito riferimento alle politiche di genere e alla tutela delle popolazioni indigene.
È vero: alcune delle decisioni che saranno in grado di far capire al mondo intero se gli accordi di Parigi (il cui spirito coraggioso e lucido sembra essere quasi un miraggio, a vederlo da qui) siano stati davvero la svolta di cui abbiamo bisogno, dovranno essere prese a Glasgow, il prossimo anno. Prima tra tutte la revisione degli obiettivi di riduzione delle emissioni dei singoli Paesi, al momento gravemente insufficiente per il raggiungimento degli obiettivi di contenimento delle emissioni al 2030 e poi della carbon neutrality al 2050.
Ciò non toglie che vista la gravità della situazione e le emissioni in crescita dal 2015 ad oggi, sarebbe stata necessaria una risposta ben più determinata e coraggiosa, che sapesse rilanciare e rispondere alla scienza e ai movimenti (soprattutto giovanili) esplosi in tutto il mondo con forza e chiarezza.
E invece se, da una parte, Cina, India, Brasile e Sudafrica (con gli Stati Uniti in uscita che però non hanno perso occasione per irrigidire i negoziati) hanno comunicato di aver “già proposto il massimo possibile in termini di ambizione climatica, ben oltre le responsabilità storiche”, dall’altra è mancata l’attesa leadership europea. Attualmente sono solo 73 i Paesi “virtuosi”, che si sono impegnati a consegnare nuove NDC a Glasgow, mentre 11 hanno avviato revisioni interne delle strategie in tal senso (tra questi non c’è l’Italia, ma il Ministro Costa ha dichiarato che anche l’Italia li presenterà).
La speranza che si intravede a livello della COP, non gigantesca per dire la verità, oltre ad un auspicabile cambio di guida politica per gli Stati Uniti il prossimo novembre, è che l’Europa divenga davvero il traino della transizione, a partire dalla costruzione di un asse con la Cina (che, grazie ad Obama, fu l’elemento positivamente dirimente degli accordi di Parigi).
L’altra, la più forte, è che la consapevolezza delle persone, della società civile, come anche la disponibilità di moltissimi attori del tessuto produttivo e del mondo dell’economia e della finanza, sappiano alimentare (ancor di più e in modo inarrestabile) un cambio radicale di paradigma “dal basso” e rafforzare quell’onda di pressione già partita e tangibile attorno ai Governi che possa spostarne l’ambizione e le politiche.
Una cosa è certa: c’è bisogno di tutti e di ciascuno.
Per la sfida dei nostri tempi nessuno può permettersi di restare a guardare.
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