Da settimane la foresta amazzonica sta bruciando. Migliaia di ettari andati in fiamme con la distruzione di flora e fauna in un’area unica al mondo per la sua biodiversità (di Mauro Morbello, per gentile concessione di Q Code Magazine).
L’Amazzonia non è una regione qualsiasi. È la maggiore area di foresta tropicale esistente al mondo. Qui si trova un terzo dei boschi primari che assorbono le emissioni di carbono prodotte dal pianeta, il 20% dell’acqua dolce non congelata e oltre il 30% della flora e fauna esistenti sulla Terra.
Nei sette milioni di chilometri quadrati distribuiti tra nove paesi (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela e Guyana) che compongono l’area amazzonica, vivono circa tre milioni di indigeni appartenenti a 400 diversi popoli, 60 dei quali si trovano ancora in situazione di isolamento volontario.
Se é vero che l´Amazzonia è un’area condivisa da vari paesi, è però il Brasile lo Stato che da solo occupa quasi i due terzi del territorio. Un territorio che in particolare tra il 1970 e i primi anni 2000 i governi brasiliani hanno sfruttato in maniera selvaggia.
Uno studio promosso dalle Nazioni Unite attraverso la FAO calcola che dal 1970 sino all’inizio del 2000 siano andati distrutti almeno 700mila chilometri quadrati di foresta amazzonica in Brasile. Una superficie di oltre il doppio del territorio italiano per intenderci.
Per fare fronte a questo disastro, a partire dal 2004 l’ex presidente Lula iniziò una politica di protezione e conservazione della foresta amazzonica creando nuove aree protette, incrementando le misure di monitoraggio volte alla conservazione della flora e della fauna, implementando una serie di sanzioni nei confronti degli agricoltori che violavano l’intangibilità dei territori destinati alla conservazione.
Purtroppo, a partire dal 2014, l’arrivo della grave crisi economica e politica che ha messo in ginocchio il Brasile e successivamente lo stesso governo di Dilma Roussef che era succeduta a Lula, ha aperto lo spazio a gruppi economici, in particolare legati al settore agricolo dei grandi produttori di carne bovina (di cui il Brasile é il primo esportatore al mondo) e soia (secondo produttore mondiale).
Con il favore del nuovo governo neoliberista al potere dal 2016 e il pretesto dell’esigenza di aumentare la produzione di soia e carne per assicurare maggiori livelli di esportazione al paese, è stato quindi gioco facile tornare impunemente ad impulsare la deforestazione e l’avanzamento della frontiera agricola all’interno delle aree in teoria protette dell’Amazzonia brasiliana.
Con l’elezione del presidente Bolsonaro (gennaio 2019) arrivato al potere, come dicono i brasiliani, con l’appoggio delle 3 B: Biblia, Bala y Buey, cioè con il supporto delle chiese evangeliche ultra conservatrici; gruppi che promuovono la diffusione delle armi e interessi economici legati all’industria agricola e all’allevamento di bestiame, si chiude definitivamente la speranza di riprendere un processo di protezione e conservazione della foresta amazzonica.
Al contrario, si assiste allo scempio. Prima dichiarato, con Bolsonaro che sin dalla campagna elettorale affermava che le aree naturali potette del Brasile erano un ostacolo alla possibilità di crescita economica del paese e che era quindi necessario “aprirle” allo sfruttamento commerciale.
Poi con i fatti, una volta eletto, da un lato procedendo …. Continua su Q Code Magazine.
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